Sono sempre stata un’estimatrice dei dettagli. Non sono quella che si potrebbe dire una persona precisa (anche se le mie fisse di ordine le ho anche io, come tutti), ma nel campo della scrittura e della lettura apprezzo chi sa focalizzarsi sui particolari senza donare pesantezza al testo.
La differenza tra precisione e pedanteria è molto sottile e solo una penna davvero capace sa modulare le parole in modo da trasformare i dettagli in immagini evocative. La penna che potrei assumere come esempio perfetto di questo talento è quella di Arundhati Roy, scrittrice indiana che ha fatto del dettaglio una sorta di manifesto stilistico e filosofico nel suo romanzo del 1997, vincitore del Booker Prize: Il dio delle piccole cose.
Avvertenze: Cerco sempre di evitare spoiler. Qualche allusione velata però la faccio.
Trama
Siamo nell’India meridionale degli anni ‘60. La globalizzazione e la musica internazionale comincia a dilagare anche in un Paese culturalmente ancorato alle proprie tradizioni, ma il percorso per l’emancipazione femminile e per l’uguaglianza è ancora lungo. Ammu sta però cercando la propria strada. Dopo aver lasciato il marito violento, tenta di vivere una vita dignitosa con i due figli, i gemelli Estha e Rahel. Attraverso i loro ricordi impariamo a conoscere la donna, sola contro un mondo in cui le donne non hanno il diritto di vivere come meglio credono e dove anche un sentimento inafferrabile come l’amore è chiuso all’interno di rigide etichette sociali. I limiti sono molti e invalicabili, ma ogni dettaglio e tentativo di ribellione viene vissuto tramite lo sguardo innocente di Estha e Rahel, che come tutti i bambini fanno tesoro dei dettagli, del dio delle piccole cose, per filtrare il mondo e gli eventi attorno a loro.
Recensione
Il dio delle piccole cose. Un titolo che non è stato scelto a caso e che sembra svelare fin da subito l’intento poetico di Arundhaty Roy. L’attenzione per il dettaglio nella sua narrazione non è infatti fine a stessa, un vezzo stilistico che non porta a nulla di nuovo rispetto ad altri libri. Il particolare qui è vivido e funzionale come un vero e proprio personaggio, e concorre a dare forma alla narrazione in ogni sua parte.
È proprio quest’ultima a dettare la principale peculiarità dell’opera, che si presenta subito come qualcosa di complesso e poco lineare. I salti temporali sono molti e il lettore si potrebbe sentire un po’ spiazzato da questo continuo passare da eventi passati a eventi presenti, quando Rahel ed Estha sono ormai grandi e si sono riuniti dopo una lunga separazione. Nonostante qualche ritorno al presente, è il passato ad avere maggiore impatto e a racchiudere la gran parte dei segreti che il lettore andrà a svelare nel corso della lettura.
Il dio delle piccole cose è la storia di una famiglia unita, ma rovinata dalle “leggi d’amore”, le stesse leggi che hanno fatto credere al marito di Ammu di potersi approcciare a lei con violenza e che hanno messo in cattiva luce Ammu quando ha deciso di lasciare l’uomo. Le stesse leggi che hanno decretato che per lei fosse impensabile innamorarsi di un uomo della casta degli Intoccabili (Sono detti intoccabili, paria o dalit tutti quegli individui considerati estranei alle caste indiane, solitamente relegati ai mestieri più umili, ignobili e sporchi e tuttora colpiti da disprezzo ed emarginazione). Le leggi d’amore nel romanzo sono onnipresenti e sembrano governare il mondo, sebbene la spinta degli impulsi e dei sentimenti tenti strenuamente di contrastarle e superarle.
Mi sono avvicinata allo stile narrativo della Roy consapevole, grazie agli avvertimenti e ai racconti di chi mi ha prestato il romanzo, di essere di fronte a qualcosa di particolare. Me ne sono resa ancora più conto quando ho frainteso gli intenti del riassunto sul retro della copertina. La trama sembrava mettere in primo piano Ammu come protagonista dell’opera, mentre man mano che proseguivo nella lettura mi sembrava sempre più inequivocabile la rilevanza di Estha e Rahel.
È proprio qui che si comincia a capire e apprezzare il metodo di scrittura di Arundhati Roy e il vero significato del “dio delle piccole cose”.
Fingendosi i veri protagonisti del romanzo, Estha e Rahel sono in realtà due testimoni fondamentali della reale trama del libro. Ne sono quasi i precisi cronisti, pur non riportandoci i fatti in modo lineare. L’infanzia dei due gemelli è zeppa di tutti quei dettagli che solo i bambini potrebbero elevare a questioni di vita o di morte: giochi, suoni, odori, canzoni, paesaggi, l’aspetto buffo dei propri familiari, i ricordi con la mamma… sono particolari della vita di tutti i giorni, del tutto trascurabili agli occhi di un adulto, ma un tassello fondamentale della memoria di due bambini e una sorta di rifugio dalla minacciosità delle Grandi Cose.
Anche dopo, nelle tredici notti che seguirono la prima, per istinto si aggrapparono alle Piccole Cose. Le Grandi Cose stavano acquattate dentro. Sapevano che non c’era posto dove potessero andare. Non avevano niente. Nessun futuro. Perciò si aggrappavano alle piccole cose.
Ridevano delle formiche che li pizzicavano sul sedere. Dei bruchi impacciati che scivolavano dal bordo delle foglie, degli scarafaggi rovesciati che non riuscivano a raddrizzarsi. Di una coppia di pesciolini che andavano sempre a cercare Velutha nel fiume per morsicarlo. Di una mantide religiosa particolarmente devota. Del ragno minuscolo, che viveva in una crepa del muro della veranda posteriore della Casa della Storia, e si mimetizzava coprendosi il corpo con dei rimasugli. Il frammento di un’ala di vespa. Un pezzetto di ragnatela. Polvere. Foglie marce. Il torace vuoto di un’ape morta. Velutha lo battezzò “Chappu Thamhuran”. Lord Spazzatura.
Il punto di vista dei gemelli è quello su cui si basa la narrazione, ma i protagonisti dell’opera paradossalmente non sono coloro che la raccontano. Tramite il loro sguardo puro, ma sempre meno innocente, emerge e prende forma la figura di Ammu, madre amorevole e severa, ma in primo luogo donna, colpita dal “peccato” di aver abbandonato il marito e coperta da una colpa ancora più grande, quando si capisce che il suo amore si scontra troppo violentemente con le convenzioni del tempo.
Insomma, è necessario immergersi con tutte le scarpe nei pensieri dei due gemelli, per conoscere in modo completo – seppure un po’ fantasioso e sbarazzino – la vicenda di Ammu e il clima che si respirava nell’India del Sud verso la fine degli anni ‘60, epoca d’oro per l’Occidente, ma ancora un lontano sogno di progresso per le zone più povere dell’Oriente. Seguiti con attenzione i pensieri di Estha e Rahel si finisce per comprendere perché è Ammu il focus del riassunto sul retro di copertina, Ammu e il suo amore, Ammu e le leggi d’amore che rovinano tutto, Ammu e la sua vita delineata attraverso il dio delle piccole cose e le minuscole rivoluzioni personali che è chiamata ogni giorno a compiere come donna.
Tra un ricordo passato e una sensazione presente, Arundhati Roy descrive il mondo con uno stile incredibilmente vivido, dettagliato, ma mai clinico. Non c’è mai freddezza nelle parole di questa autrice, bensì un afflato poetico che si percepisce a pelle, pagina dopo pagina. C’è bisogno di una grande sensibilità per riportare, senza tradirne la natura, i pensieri di due bambini, e l’autrice è stata in grado di farlo con cura, rispettando l’innocenza dei primi anni di vita, ma anche la profondità di cui un bambino è capace.
Se la complessità dell’intreccio e in dinamismo dei continui salti da presente a passato potrebbero mettere inizialmente in difficoltà il lettore, è la narrazione rapida e ricca a conquistare l’occhio, rendendo piacevole la lettura e invogliando a proseguire per scoprire la verità che si cela dietro ai personaggi e al terribile evento a cui si fa accenno fin dai primi capitoli.
Il dio delle piccole cose è un libro che mi sento di consigliare a tutti gli amanti della bella scrittura e a chi apprezza i percorsi irregolari, a chi vuole vedere il mondo attraverso uno sguardo molto particolare, a chi vuole guadagnarsi la verità e a chi sa cogliere la bellezza delle piccole cose.